Pochi mesi fa Facebook ha annunciato l’introduzione dei bot: entità virtuali capaci di comunicare con noi umani e di imparare autonomamente. Al di là dello scarso successo dell’esperimento, ormai siamo tutti coscienti che poco manca all’introduzione sul mercato di automi capaci di sostituire esseri umani in attività sempre più sofisticate, si pensi solo alla guerra degli annunci sulle automobili auto-guidate (Uber, Google, Apple, CNH per i trattori….). Si stima che gli studi sul connettoma e lo sviluppo delle neuroscienze permetteranno di riprodurre un cervello umano entro qualche lustro. Filosofi e futurologi disegnano scenari inquietanti parlando di singolarità (Ray Kurzweil) o, peggio, di transumanesimo (Nick Bostrom). Da poco è uscito il libro The Age of EM di Robin Hanson (serio ricercatore della Oxford University), in cui l’autore dopo anni di studi sull’evoluzione tecnologica, sulla sociologia, sulla fisica e sull’economia, ipotizza un oscuro futuro in cui l’umanità che conosciamo è confinata ai margini e le città sono enormi server, abitate da robot con dentro proiezioni informatiche di cervelli umani.
Ora permettetemi di fare un passo indietro e tornare ai bot: al di là del fascino che può avere un’invenzione del genere, mi viene spontaneo chiedermi quanto queste tecnologie possano migliorare la qualità della vita. E la risposta che mi do è molto banale: dipende da come le applichiamo.
Le automobili auto-guidate saranno buone se eviteranno che camionisti ubriachi vadano contromano in autostrada o addosso alle folle, meno buone se, presi dall’ansia del risparmio, porteranno da sole i nostri figli a scuola senza saperne capire ansie e preoccupazioni.
Vediamo l’esempio di un settore che conosco molto bene, il business process outsourcing, dove migliaia di lavoratori ogni giorno fanno del loro meglio per dare supporto ai consumatori di elettricità, telefonia, servizi bancari e prodotti di consumo: milioni di clienti che hanno bisogno di interagire con i loro fornitori per problemi più o meno urgenti e gravi.
Sostituendo una persona con un bot il costo si riduce di dieci, cento volte. I lavoratori si preoccupano, le imprese fanno i conti.
E qui arriva la mia visione ottimistica: “inoltre e non invece”. I manager lungimiranti che gestiscono milioni di clienti sanno bene che la relazione con loro è un momento fondamentale per consolidare la fedeltà e i riacquisti futuri. Stanno ben attenti alla qualità con cui vengono gestite le loro richieste, e investono in tecnologie avanzate (big data, data science, machine learning) che permettono di capire le loro esigenze, talvolta persino anticipandole. Ma le innovazioni introdotte hanno la finalità di facilitare il lavoro all’operatore umano rendendolo più esperto e più mirato nel suo intervento per migliorare l’esperienza del cliente finale e quindi la probabilità che rimanga fedele.
Al contrario, le imprese miopi, che si buttano verso la strada della riduzione dei costi e della disumanizzazione dei servizi, sono destinate a perdere clienti e quindi a uscire dal mercato. Questo è il vaccino contro la transumanazione: se avessero la meglio queste aziende, a forza di sostituire persone con bot ci troveremmo davvero in un mondo dove i bot vendono a bot…
Un buon segno è che la scorsa settimana i grandi del mondo (Facebook, Google, IBM, Microsoft, Amazon) si siano incontrati per ragionare su come regolare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (stimolati da una ricerca della Stanford University “AI100: cento anni di intelligenza artificiale”).
Finché i decisori nei diversi settori e a diversi livelli manterranno questa sensibilità l’umanità può stare tranquilla.
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Per approfondire
Ray Kurzweil (2008), La singolarità è vicina, Apogeo
Ray Kurzweil (2013), Come creare una mente, Apogeo
Robin Hanson (2016), The age of EM, Oxford UP
Nick Bostrom (2014), Superintelligence, Oxford UP
Cento anni di intelligenza artificiale https://ai100.stanford.edu/2016-report